UNNI U MARI E’ MARI:

I GRAFFITI DI FRANCESCO LA FAUCI

 

Gridati o discreti, i graffiti costituiscono un genere di scrittura laterale e di contesto. A differenza degli scrittori e dei pittori che iniziano dal bianco alla ricerca di uno o più punti di fuga in uno spazio chiuso, i graffitari non scelgono fondi su cui concentrarsi, bensì lati su cui far scorrere le immagini. Consapevoli del carattere dello spettatore odierno, lo tengono in conto non nella veste di acquirente, ma nel suo stato di distratto passante. Pur destinati a un lettore in transito, graffiti e murales restano laddove nascono: muri, pareti, e fiancate di ogni foggia vengono scelti con totale dispregio della loro “politezza”, ma con una particolare attenzione ai rimandi del paesaggio circostante, valorizzando creativamente ed eco-logicamente la scrittura naturale o artificiale che in esso preesiste. Il genere si distingue per la gratuità: diversamente da quanto avviene nei rapporti commerciali, in cui, dalle tabernae romane alle botteghe medievali sino ad internet, si è soliti privilegiare una non sempre autentica frontalità, al lettore di murales non si richiede l’attenzione né la totale disattenzione: il suo sguardo obliquo e distratto è la premessa necessaria di qualsiasi tipo di risveglio che la parola graffiata voglia suscitare. Non ci si sveglia, infatti, se non quando si sta dormendo: il vizio di una visione centralista e prospettica ci induce a trascurare ciò che impercettibilmente scorre ai lati, perfino le persone che pressano i nostri fianchi sugli autobus o lungo le strade. Voltarci dal centro al lato può avere il carattere della sfida, o, all’opposto, del dono. Lungo il perimetro del Mediterraneo, mare dai mille lati, gli occhi degli uomini “dal multiforme ingegno” conoscono entrambi gli sguardi: quello obliquo e laterale della Sfinge, e quello frontale dell’Annunciata di Antonello da Messina. Anche quando non si guarda è come se si guardasse; l’udito si tende a dismisura, assetato di cogliere ogni eco di vita, anche quell’eco  visiva rimandata dai murales che vanno, pertanto, ascoltati. Come i graffiti della caverne e i decori delle tombe egizie, quest’arte non chiede di essere vista, ma intravista, senza nulla togliere al suo carattere mimetico e seminascosto. In tal senso, si tratta di un’arte intrasferibile: la sua musealizzazione sarebbe la sua fine. Sfuggito alla monotonia dello sguardo centralista, e al privilegio accordato a quel che abbiamo davanti piuttosto che a ciò che ci circonda e sovrasta, ho scoperto una vita che mi è passata accanto, una vita narrata sulle pareti dei murales. Si chiamava Francesco La Fauci, ma si firmava KEMIO , aveva solo 17 anni, e come ci urla immediatamente il suo pseudonimo di poeta e graffitaro, era un ragazzo che lottava strenuamente con la malattia. La sua inconfondibile firma attraversa Messina, dalla sua casa alla scuola, con la “o” finale che sembra voler scoppiare in un sorriso, quello stesso che campeggia nelle sue foto, un sorriso da cui la vita appare bianca come una mandorla schiusa.

 
 

Francesco era un alunno della scuola in cui insegno. Se n’è andato il giorno prima del mio arrivo.

Dario, un mio allievo suo amico, mi ha dato le poesie di Francesco, e abbiamo letto e studiato, ossia amato, in classe, quei testi da cui emerge la maturità superiore e la grinta di questo giovane uomo consapevole fino in fondo della battaglia che stava combattendo, disposto ad accettare, a capire o a urlare, mai a rassegnarsi supinamente. “Non voglio essere archiviato”, scriveva, e tra i suoi tanti, incalzanti “perché”, balenava l’idea che la morte non sarebbe stata una fine, ma un nuovo giorno, un’alba senza più notte, in cui quel principio di vita da sempre interpellato l’avrebbe finalmente illuminato dall’interno. Francesco abitava a Torre Faro, sul davanzale dello Stretto di Messina, vicino al Pilone rosso e bianco che una volta portava l’elettricità dalla Sicilia alla Calabria.

Ho trascorso una domenica alla ricerca dei suoi graffiti. Vicino alla chiesa del paese, una scritta a caratteri verdi, ora tondi ora spigolosi, “DELUSION”, con l’inconfondibile firma, è attorniata da nuove scritte di coloro che lo piangono, e da un’epigrafe:”Delusion 2004, dedito alla passione per i graffiti” e un “don’t touch” che invita alla tutela della propria opera o, piuttosto, al rispetto di una delusione intangibile dalle troppo facili consolazioni. Basta spingersi verso il Pilone, e fare il giro delle murate che lo cingono, e dei padiglioni in ferro del vecchio tiro a volo, per scoprire le tracce del suo mondo, un mondo che appare, ancora, grintosamente vivo.

Una scritta “Kemio” in rosa sembra venir fuori, nitida, dal muro di una casa non terminata, accanto all’alluminio sonoro di un cantiere. Poco oltre, sulla centralina elettrica accanto al grande traliccio, una K arancione su fondo blu cerca la giusta posizione per spiccare il volo.

Lungo la cinta del Pilone, campeggia un suo “TI AMO” giallo in fondo arancio, in cui la “o” finale scivola giù spinta da una freccia, trasformandosi in punto fermo, seppure traforata da un buco che annuncia il passaggio (di fronte, l’immensa scritta bianca “ciao Kemio” degli amici, aperta come un abbraccio nell’addio). Voltando l’angolo, dal lato della spiaggia, una firma dello stesso colore del mare, le lettere risaltate da un contorno nero con un lieve giro di giallo, le bollicine interne di azzurro chiaro, pare volere esprimere la densità della vita che lievita finanche tra le misteriose cavità del male. E ancora andando avanti, un grande “SHUT UP”, con i caratteri pieni di bollicine rabbiose, ironiche come tentacoli di un polpo, mentre una freccia scende giù verso la sabbia. Addentrandosi tra le mura del vecchio tiro a volo, ecco il segno di Kemio in blu verticale sullo stipite di una porta; poi una grande K arancione circondata di blu. Dentro un padiglione, a guisa di rovina pompeiana, un forno tutto “graffiato”, su cui la scritta “Kemio” campeggia a destra della bocca del pane e “un ciao mamma” sulla parete retrostante sembra scritto apposta per mamma Fernanda.

 

 
 

Un nome di ragazza si ripete, com’è giusto, sul bordo superiore di un muretto, in parallelo con la linea del mare, ed ecco allora un “Kemio” innamorato, con il puntino della “ i “ che si trasforma in cuore esalando dolce come la nuvoletta da un comignolo. Non lontano, in risposta, un “Kemio ti amo” campeggia su una parete di mattoni rossi. Si scopre, con un rapido sguardo, che i graffitari dialogano tra loro attraverso i loro segni, come la più anti-accademica delle accademie, in un corrispondersi per immagini, ora in codice ora più palese, che già per il suo svolgersi tinteggiando all’aria aperta risulta più creativo e salutare di qualsiasi monotona chat, in cui ogni traccia si perde appena scritta. L’arte del graffito ha il pregio di rendere a colori lo scialbo mondo delle pareti lasciate a metà che non formano case o che un tempo lo erano, un mondo in cui una spruzzata di colore e una sottile inventiva, agrodolce come il silicum acetum, permette di obliare o ribaltare l’incuria dei “grandi”, esprimendo un protagonismo che quelli nemmeno si sognano, in un posto di eccezionale bellezza, unni u mari è mari [dove il mare è mare], come recita un altro incisivo graffito. Anche la morte, a immagine dello Stretto sereno e periglioso, si trasforma in un orizzonte non più incolmabile, ma denso di luci, memorie e richiami, come il mito locale della Fatamorgana, secondo cui, in rari momenti, una città “altra” sorgerebbe sul mare, riflesso non capovolto ma all’impiedi, sogno o realtà di inusitate trasparenze.

Nei graffiti di Francesco emerge la stessa sete di autenticità: ciò che trascorre si mostra come ciò che permane, esempio neoeracliteo dell’immortalità del transeunte, nella misteriosa coincidenza di fragilità e tenacia propria dell’esperienza di questo giovane, tenero artista en passant, che a buon diritto non sarà dimenticato.  

 

Gabriele BLUNDO CANTO

Tratto dal " VESPERTILLA"

Mensile romano di approfondimento culturale:arti,lettere, spettacolo.